Intervista a Denise Tamborrino, direttrice del Museo Etrusco di Marzabotto.

INTERVISTA AD UN PROFESSIONISTA DEL SETTORE TURISTICO E CULTURALE: DENISE TAMBORRINO.
Apertura e sinergia: parole chiave del turismo che verrà.

A cura di Daniela Etzo

Ho avuto l’opportunità di intervistare Denise Tamborrino, funzionario del Ministero per la cultura e direttrice del Museo Etrusco di Marzabotto. Denise mi ha accolta sorridente nel suo ufficio all’interno della splendida cornice della Pinacoteca Nazionale di Bologna e con grande passione ed entusiasmo, mi ha dedicato un po’ del suo tempo per raccontarmi di lei e del suo lavoro. – Daniela Etzo

 

Denise-Tamborrino
La direttrice Denise Tamborrino

Chi sei? Sono Denise Tamborrino, funzionario architetto del Ministero della Cultura.

Di cosa ti occupi? Attualmente sono direttrice del museo nazionale etrusco di Marzabotto, dell’ex Chiesa di S. Mattia, dell’ex chiesa di San Barbaziano e del complesso di Torre Jussi. Sono i siti che afferiscono al territorio della città metropolitana di Bologna e che sono in consegna alla direzione regionale musei Emilia Romagna che è un istituto periferico del Ministero della Cultura.

Qual è stato il tuo percorso formativo? Dopo essere diventata Architetto, ho conseguito il dottorato in Storia dell’architettura e urbanistica. Di recente mi sono perfezionata in antropologia museale e dell’arte. In mezzo tante esperienze professionali: come libero professionista, come docente universitaria e tanta formazione specifica sui temi del paesaggio e della museologia all’interno del Ministero.

Ci sono delle tappe che consideri decisive nel tuo percorso? Più che tappe mie personali, probabilmente un momento decisivo per il mio percorso è stato quando è entrata in vigore la riforma Franceschini nel 2014. La riforma ha portato ad una diversa visione di tutta la gestione museale da parte dello Stato, tra le altre cose “obbligando” diverse professionalità a lavorare insieme. Prima i musei erano prevalentemente orientati ad attività di studio e ricerca e non orientati verso il pubblico, o meglio “i pubblici”. In quel frangente ho potuto scegliere di seguire dall’inizio questo percorso passando dall’ambito paesaggistico di cui mi occupavo in precedenza, a quello museale che sarebbe stato rivoluzionato a breve proprio da questa riforma. La svolta è stata l’essermi trovata nel momento in cui le cose stavano cambiando ed essere riuscita a capirlo. Dal 2015 infatti i musei provano a parlare con il pubblico, provano ad offrire un servizio al cittadino che è poi uno degli obiettivi del nostro lavoro. Noi dobbiamo cercare di fornire il servizio migliore, compatibilmente con le risorse di cui disponiamo. Quindi non direi che un titolo piuttosto che un altro abbia segnato una svolta particolare, essere parte di questo percorso di rinnovamento invece credo che sia stata e sia la cosa più bella e più importante per me fino ad ora perché mi ha permesso di cambiare prospettiva.

Poco fa hai accennato al fatto di non aver sempre lavorato in ambito museale all’interno del Ministero ma di esserti occupata in precedenza di beni paesaggistici. Anche questo è un settore strettamente correlato con il turismo, cosa puoi dirmi di quella esperienza? Il paesaggio è la tutela più difficile da esprimere ma è anche quella più densa, più ricca di significati perché ha insieme tutta una serie di chiavi di lettura che non si possono trascurare. È il processo di trasformazione controllata di un ambiente naturale che noi vediamo bello perché c’è un controllo forte: c’è il controllo dell’agricoltura, c’è il controllo dell’insediamento, c’è la storia, tecniche costruttive, c’è tutto ed è la tutela più difficile da mettere insieme perché è anche molto identitaria. La sfida più grossa quando ti trovi a tutelare e a valorizzare un paesaggio è quella di fornire degli strumenti normativi che siano in grado di governare la trasformazione affinché questo paesaggio si conservi ma non si ingessi, perché altrimenti diventa una cartolina e la cartolina non è sempre coerente perché magari i sistemi economici intorno cambiano e se intorno non c’è sviluppo il territorio muore. Il paesaggio invece è vita. Tenere insieme la bellezza e le peculiarità di un paesaggio con la necessità di sviluppo degli abitanti e del territorio che lo circonda, è questo l’obiettivo. Il paesaggio è anch’esso in trasformazione quindi bisogna trovare delle soluzioni per inserire questi elementi non negandoli ma provando di trovare una soluzione. Anche il turismo può avere un impatto non trascurabile ed è necessario conciliare i flussi turistici, che portano ricchezza e quindi sviluppo ma che possono produrre uno sfruttamento eccessivo, con la tutela del territorio.

Prima mentre parlavi ti sei corretta quando hai usato la parola pubblico cambiandola in “pubblici”, perché? Come strutture museali dobbiamo essere pronti o cercare di fornire un servizio specifico per tutte le categorie di pubblici, lo Stato deve offrire un servizio per tutti, il patrimonio è di tutti e in questo essere di tutti ci sono persone con bisogni speciali, legati a disabilità ma ci sono anche le fragilità economiche, le difficoltà linguistiche ecc… Quindi tu i tuoi contenuti li devi rendere accessibili: la parola magica su cui tutti i musei dello stato stanno lavorando da almeno 2 anni è accessibilità. Che non va confusa con la possibilità di accedere per una persona con scarsa capacità motoria, ha un’accezione molto più ampia di questa ed è il fatto di poter mettere i visitatori a proprio agio, di metterli in condizione di capire tutti in contenuti, di poterli fruire a seconda del proprio livello e di poter dire il museo è un luogo accogliente dove cresce l’idea di cittadinanza. L’idea che quello che viene esposto racconti una storia, una storia in parte mia, ossia di tutti, ed è una storia che ci aiuta a diventare degli esseri sociali migliori.

A cosa dedichi più tempo nelle tue mansioni? Qual è la più impegnativa? Sicuramente un 80% del mio tempo lo dedico a pratiche burocratiche, il 20% idee e cose belle. L’80% è tutto quello che serve per realizzarle. Non posso comunque dire che il mio lavoro è impegnativo perché mi piace molto quello che faccio.

Un aspetto positivo e uno negativo del lavoro che svolgi. Un aspetto positivo è che, se vissuto nel modo giusto, ti dà la possibilità di vedere il futuro, immaginare cosa può succedere e che il seme che tu stai gettando adesso potrai vederlo germogliare. Aspetto negativo, probabilmente un’eccessiva polemizzazione. Come enti Statali o museali in genere si hanno sempre gli occhi un po’ addosso, per cui non ci viene consentito molto margine di errore.

Il lavoro ti consente di conciliare la vita professionale con il tempo libero o la vita familiare? Il covid ci ha consentito di passare allo smart working, questo mi ha dato la possibilità di conciliare molto meglio la mia vita familiare con gli impegni lavorativi.

A proposito di Covid, quindi ha impattato sul tuo lavoro? Ci sono state delle variazioni? Nella drammaticità della situazione generale, credo che abbia comunque influito in maniera positiva per quel che riguarda l’organizzazione lavorativa. Noi prima avevamo un contratto di 36 ore, timbravamo il cartellino in entrata e in uscita e non avevamo formule diverse. Adesso lo smart working “obbligato” ha fatto capire che si può essere produttivi anche lavorando con dei ritmi più distesi e personalizzati, per cui ci è stata data la possibilità di scegliere se continuare ad utilizzarlo. Questo sicuramente ha avuto un impatto positivo sul benessere dei dipendenti.

Statuetta in bronzo de “La Signora di Marzabotto”

Mi racconti qualche tuo progetto recente? Sempre ricollegandomi al tema dell’accessibilità l’anno scorso abbiamo organizzato un percorso di visita per un gruppo di non vedenti, che si collegava ad un percorso sul territorio organizzato dall’associazione “La Girobussola”. A Marzabotto adesso stiamo progettando il riallestimento del museo. Riallestimento vuol dire prima di tutto farsi delle domande fondamentali: chi siamo? A chi parliamo? A tutti. E allora per parlare a tutti dobbiamo essere un museo facilmente frequentabile da tutti. Produrre contenuti specifici, ripensare al processo scientifico che è alla base (nel caso di Marzabotto risale agli anni ‘70) e in questi 40 anni sono cambiate tante cose. Cercare di capire come puoi essere un museo archeologico nel 2022. Nel caso specifico del sito di Kainua, noi raccontiamo una città che non si vede, che però c’è, c’è stata, è in fase di scavo però non si vede per cui chiediamo ai visitatori che ci vengono a trovare, uno sforzo di immaginazione piuttosto consistente. E quelli che non ci riescono o che non ne hanno voglia? Allora via via stiamo producendo dei contenuti extra che possano aiutarli nella visualizzazione di quello che c’era e ora non c’è, per raccontare anche l’invisibile. I bambini in questo senso sono fantastici perché hanno più dimestichezza con l’esercizio dell’immaginazione, stiamo lavorando tanto con le scuole adesso con cui stiamo seguendo dei progetti di educazione al patrimonio e alla legalità. Gli adulti invece a volte fanno più fatica e quindi bisogna trovare dei modi per accompagnarli in questo esercizio. Attualmente stiamo organizzando le giornate europee dell’archeologia in cui faremo, in collaborazione con l’università di Bologna e la fondazione Golinelli, un laboratorio per famiglie. La fondazione metterà a disposizione un astrofisico, l’università degli archeologi e si metteranno insieme gli astri con gli scavi prendendo ispirazione dal rito di fondazione di Kainua.

Quale consideri attualmente un obiettivo da raggiungere? Riportare i siti archeologici più vicini di quanto non sembrino è la vera sfida al momento. Il patrimonio è tutto, non solo il paesaggio e il monumento ma anche il saper fare cose, talmente particolari che vanno salvaguardate. Finalmente la tutela di questo patrimonio (immateriale) sta avendo il giusto riconoscimento. Siamo abituati a dare prevalenza alla vista, ma dietro un oggetto spesso c’è una maestria non esplicitata. Rendere gli oggetti capaci di raccontare tante storie: l’oggetto in se, la storia di chi lo ha posseduto, dì chi lo ha manovrato, di chi lo ha fatto. Dobbiamo essere capaci di rinnovare i contenuti che possono essere raccontati all’interno dei musei. Uscire dalla visita di un museo facendosi delle domande è la cosa più bella che si può fare. Dobbiamo riuscire ad innescare questo processo e stimolare la curiosità del visitatore. Pensando per esempio allo scopo della vostra formazione (ITS) è chiaro che tu puoi progettare un itinerario turistico mettendo insieme un qualcosa che tenga delle tappe in maniera esplicita, però ci sono anche degli itinerari che tengono insieme le tappe lavorando su temi del saper fare, sulle tracce di qualcosa che si è perso e che magari può trovare dei riscontri anche in maniera trasversale. Adesso è una delle cose importanti.

Mi hai raccontato tante cose interessantissime, ma questo è il lavoro che immaginavi di fare? Si, sono riuscita a fare quello che volevo e per questo mi considero una persona molto fortunata.

C’è qualcosa nelle tue radici che pensi ti abbia in qualche modo portata fin qui? Mio padre veniva da tutt’altro ambito, però era un gran curioso e comprava riviste di archeologia, storia, geografia… quindi probabilmente l’ambiente familiare mi ha incuriosita e stimolata.

C’è stato qualcuno che ti abbia trasmesso insegnamenti o passioni o che ti abbia ispirato? Non ho avuto un punto di riferimento durante gli studi o l’infanzia, le mie fonti di ispirazione maggiori le sto avendo in questi anni da quando ho la possibilità di lavorare con professionisti di altri ambiti (nello specifico al momento con una etnoantropologa e una archeologa). Il voler stare insieme (varie figure professionali) a scambiarci punti di vista e capire dove finisce il proprio ambito e dove sfuma e inizia quello dell’altro, sono quei territori dove nascono le idee ed è bellissimo. E i progetti prendono forma in una maniera complessa ma estremamente inclusiva per quanto riguarda il contenuto. Sfondare gli ambiti tipici della disciplina ti apre possibilità incredibili.

Cambieresti qualcosa del tuo lavoro? E ci sono delle cose che non rifaresti? Solo un po’ meno burocrazia!

Pensi che sia il lavoro che farai sempre o hai idea di cambiare in futuro? Non so se lo farò sempre. Lavorando all’interno del Ministero dipende molto anche da quale piega le cose possono prendere all’interno dello stesso.

Quali consideri le skill professionali e trasversali necessarie per svolgere bene il tuo lavoro o comunque lavorare in questo ambito? Grande flessibilità: rispetto agli imprevisti, rispetto alle richieste e rispetto al fatto che quello che stai pensando adesso potrebbe non essere buono rispetto quello che sarà tra 3 o 4 anni, bisogna costruirsi una competenza, senza avere paura di contaminarsi. Capire i propri limiti culturali (perché tutti gli abbiamo) e imparare ad andare oltre. Sapersi mettere nei panni dell’altro, provo sempre a mettermi da un altro punto di vista. Provare a scardinare e a capire che la nostra visione non è quella giusta. Adesso si sta cercando di definire il museo come spazio “democratizzante” dove si esercita la democrazia e nell’esercizio di questa democrazia ognuno si sente libero di esprimersi. Il museo non giudica e nel non giudicare non impone dei contenuti in maniera diretta: “è così perché te lo sto dicendo io” (cosa che veniva fatta fino al 2014). Per noi, invece, adesso è importante aprirsi alla cittadinanza. Sospendere il pregiudizio nei confronti dei colleghi: anche se non li stimiamo particolarmente non vuol dire che non siano portatori di idee buone. Quindi essere sempre aperti all’ascolto degli altri.

Come immagini il tuo lavoro tra 10 anni? La mia esperienza mi sta dicendo che si è puntato tanto alle tecnologie ma non è detto che le tecnologie siano la risposta, quindi tra 10 anni tutta una serie di contenuti che sono prodotti adesso non è detto che siano ancora validi. Non è detto che quelle forme con cui noi stiamo mediando il patrimonio siano ancora quelle giuste. Quindi probabilmente le sfide saranno diverse, probabilmente se i semi gettati sono buoni avremo una base di partenza su cui costruire ulteriori contenuti di mediazione diversa.

Come ti ho spiegato il nostro corso include molte ore di stage. Sicuramente avrai anche tu avuto a che fare con stagisti/tirocinanti o lo sarai stata tu stessa. Consigli in merito?

Bisogna avere sempre con un approccio costruttivo, è un mestiere complicato bisogna fare quindi un po’ di esperienza. Lo stage è un’occasione d’oro. Orecchie e occhi apertissimi, perché il fatto di saper osservare il posto dove sei e le persone è importante, perché ti insegna come muoverti all’interno dell’ambiente lavorativo. Non bisogna mai dimenticarsi che quando sei un dipendente rappresenti l’azienda o l’istituzione per cui lavori per cui è fondamentale farsi un’idea chiara dei meccanismi in cui ci si muove. L’unico modo per farlo è l’esperienza e a volte per l’esperienza è importante anche solo osservare. Potrà capitare di non avere mansioni importanti all’inizio ma bisogna capire che anche quello è un momento di formazione che se affrontato nel modo giusto e con il giusto spirito, può farci crescere professionalmente. È molto importante anche capire con chi stai parlando: informarsi prima di incontrare qualcuno è una buona abitudine, a volte fondamentale per non fare (e non far fare alla propria azienda) pessime figure!

Pensi che un corso di studio un po’ più pratico come il nostro possa essere un’alternativa valida? Si, in base all’esperienza di una mia amica che ha fatto un corso simile al vostro, gli strumenti che le ha dato il corso sono stati utili perché li ha potuti spendere già durante il tirocinio. Sicuramente il corso l’ha professionalizzata su degli aspetti che in quel momento al museo in cui è andata a lavorare servivano molto e quindi di avere delle persone con un approccio più specialistico. A volte c’è bisogno di qualcuno che vada dritto al sodo: non si può sempre guardare tutto dall’alto! A volte c’è la necessità di professionalità più specifiche che possano assolvere ad esigenze particolari. Fermo restando di mantenere sempre quel grado di “generalismo” che ti consenta di slittare sempre il punto di vista. Fondamentale insomma mantenersi sempre un po’ curiosi, guardarsi sempre intorno e vedere che aria tira.

In generale che cosa consiglieresti o suggeriresti ad un giovane che si affaccia adesso in questo settore? Avere un proprio percorso chiaro aiuta molto, poter dire questo sono io e posso dare un contributo non diventando qualcos’altro ma partendo dalla mia identità professionale e trovando i punti di contatto con quella dell’altro e viceversa. Non aver paura di contaminarsi pur essendo competenti nel proprio ambito. E cercare di essere flessibili come dicevamo prima perchè magari le tecnologie cambiano, le risorse economiche cambiano. Un cambiamento di contesto su mille livelli che non siamo in grado di prevedere oggi e che però deve essere sempre improntato ad offrire il miglior servizio possibile agli altri. Poter dire che il lavoro che fai lo fai perché ti dà soddisfazione ma che ha un fine nel costruire la società: l’operatore culturale e turistico costruisce società nuove, che si scambiano informazioni, società che si mettono a confronto, che smussano gli angoli, che si avvicinano.